Firenze Rocks 2017
Ci sono alcune giornate che per un soffio hai rischiato di non vivere. Perché hai pensato che sarebbe stato meglio non partire, perché avevi paura di un attacco terroristico, del caldo torrido, di essere calpestato durante il panico generale. Per pigrizia o perché a metà strada ti sei accorto di aver scordato la patente sul tavolo del salotto. Di solito sono quelle giornate che finiscono per essere tra le cinque o sei che ricorderai per sempre.
Non sono nata con il grunge. Ho scoperto la voce di Eddie Vedder con colpevole ritardo, ma (a mia parziale discolpa) non l’ho più lasciata andare. L’ho conosciuta con una canzone che passava spesso alla radio quando ancora i miei gusti musicali erano confusi e non ero io il pilota. Una canzone che gridava ai miei 19 anni qualcosa di seducente e terrificante al tempo stesso: «I know I was born and I know that I’ll die the in between is mine. I am mine». La cantavamo stonati durante le grigliate sul fiume, con le birre incastrate tra i sassi.
Non sono mai stata una fan perfetta dei Pearl Jam: mi innamoravo delle canzoni sbagliate. Adoravo una traccia di Vitalogy che diventò in fretta troppo famosa. I miei amici tendevano a saltarla e la ascoltavo da sola, guidando senza meta in piena notte: «She dreams in color she dreams in red can’t find a better man». Prima di tornare a casa passavo per il centro della città ed ero sempre troppo stanca per parcheggiare in garage. Lasciavo la macchina sulla strada, sapendo che mio padre non ne sarebbe stato felice.
Non sono mai riuscita a finire Into the Wild, perché io, che tremo all’idea di una distrazione, non voglio assistere a quel minuscolo errore fatale e dover pensare a quanto tutto sia appeso a un filo, né a quanto sottile quel filo sia. La colonna sonora, quella la conosco così bene da riconoscere i silenzi tra una traccia e l’altra. Mi sono fatta accompagnare dall’altra parte dell’oceano da Guaranteed e Society, da Hard Sun, Setting Forth e Rise.
Non sono una fan perfetta e va bene così, dopotutto non mi definisco una fan. Dico solo che se la Terra stesse per estinguersi e nella capsula da inviare nello spazio ci fosse posto per una voce soltanto, vorrei fosse quella di Eddie Vedder a raccontare la nostra storia.
La racconterebbe come ha fatto un sabato di giugno davanti a cinquantamila persone, con una bottiglia di vino e una chitarra. Con ironia e sentimento e tenerezza e rabbia e stupore e gratitudine e malinconia e amore. Con le parole giuste e, naturalmente, la voce perfetta.
In molti hanno cercato di descrivere una serata indescrivibile: tra tutte le parole ce n’è una ricorrente e quella parola è “magia”. La stella, così grande, così vicina, che ha scelto di cadere sulle note finali di Imagine può essere stata una coincidenza, certo, solo un piccolo incontro casuale nell’universo dei momenti, ma in quell’istante, quando abbiamo sentito sciogliersi la stanchezza e le preoccupazioni svanire, è stata forte l’impressione di aver assistito a qualcosa di grande, molto più grande di noi.
L’attimo dopo eravamo ancora lì, ma la magia non se n’era andata. L’abbiamo ritrovata in forma diversa qualche canzone più tardi, quando cinquantamila voci (più due) hanno intonato Rockin’ in the Free World di Neil Young. Senza nemmeno saperlo credo che in molti abbiano cercato di urlare un po’ più forte, per farsi sentire un po’ più lontano, per coprire il suono della paura che, anche se lieve, è sempre dannatamente presente.
Quando incontrerete qualcuno che è stato lì quella sera e gli chiederete che cosa ricorderà per sempre forse risponderà con il titolo di una canzone, forse vi mostrerà una foto, una maglietta. In pochi vi diranno di averlo sfiorato, in molti di non averlo visto quasi per nulla. Qualcuno vi parlerà di quella stella cadente, qualcun altro del momento in cui la sua canzone preferita si è trasformata in un saluto. Discreto e immenso come la storia di una vita intera, come una richiesta disperata, l’unica possibile: «Come back».
Così. La giornata che per un soffio ho rischiato di non vivere. Tra le cinque o sei che ricorderò per sempre. Io che non credo alle coincidenze voglio pensare che non sia un caso che tra le canzoni ci fossero anche quelle che ho sempre chiamato, senza alcun diritto, mie.
È possibile sentirsi unici in una moltitudine e pensare che alcune cose siano solo tue e poi aprire gli occhi e capire che lo sono: sono contemporaneamente solo tue e solo di ognuna delle persone che ti stanno accanto. Sono le tue grigliate al fiume o la sera che tra tutte le canzoni lui ha scelto proprio quella. È il tuo viaggio attraverso i parchi americani, sono i tuoi tentativi di imparare a suonare l’ukulele, i tuoi giri in macchina alle due del mattino, le tue notti sul balcone a fumare. Chissà se la magia è nata da tutti i ricordi che riempivano il cielo di Firenze, dalle nostre storie, dall’amore che abbiamo perso, dall’amore che abbiamo trovato, dagli amici a cui abbiamo detto addio, dai sogni che custodiamo nonostante la vita e dalla nostra buona speranza.
Non c’è molto da aggiungere, anche tutte queste parole potevano essere risparmiate, ma se aiutano a credere che la musica possa davvero salvarci da qualsiasi tipo di guerra, allora è stato giusto scriverle, perché è un altro modo di urlare un po’ più forte, di farci sentire un po’ più lontano. Di coprire il suono della paura e di continuare a fare rock, a modo nostro, nel mondo libero.
Perché odio Steven Spielberg
Partiamo da un’indispensabile eccezione. Indiana Jones e l’ultima crociata è uno dei film che amo di più al mondo. Se ci fossero altri mondi, lo amerei anche in quelli. Cito a memoria quasi ogni battuta, ma (contro ogni pronostico) quella che nel tempo ho ripetuto più volte è: «Solo l’uomo penitente potrà passare». Non chiedetemi come, non cercate di immaginare in che contesto, fidatevi e basta.
Prima di arrivare al dunque, vorrei condividere due teorie che da anni sostengo con tutte le mie forze. La prima si può riassumere in una semplice frase: Spielberg e Zemeckis sono la stessa persona. Altrimenti come si spiegherebbe Forrest Gump? Esatto.
La seconda teoria è un po’ più articolata, ma il concetto alla base è che Tom Hanks sia il male supremo. Ho molte prove a sostegno, ma quella a cui tengo di più è la capacità unica che possiede soltanto Tom di riuscire a rendere noiosi persino i dialoghi scritti da quel genio assoluto di Aaron Sorkin.
So benissimo che Spielmeckis ha fatto anche cose buone: dal soggetto dei Goonies a «telefono casa», voi direte Lo squalo e i dinosauri, eccetera. Potremmo discutere per ore, ma arriveremmo comunque al motivo per cui ho deciso che, nonostante la gratitudine per Junior, suo padre e i ritorni al futuro, l’odio deve vincere.
Il motivo è (Ready) Player One.
Per chi non ne fosse a conoscenza: Ready Player One è un libro, prima che uno scempio cinematografico. Definirlo “libro” è riduttivo. Ready Player One è un’esperienza obbligatoria per chiunque sia nato dopo il 1970. Ma anche prima, anche durante. Insomma: leggetelo.
La traduzione non è un granché, ma l’avventura è straordinaria.
Potreste ribattere: «Non mi serve leggere il libro, ho visto il film» e io, allora, avrei due opzioni. La prima è girarmi e andarmene, la seconda è rispondere che (per fortuna) il film non c’entra nulla con il libro.
Ora dovrei iniziare a elencarvi le differenze, ma rimarrebbero fuori soltanto i nomi, perciò ne sceglierò cinque, forse nemmeno le più importanti:
1. Art3mis, nel libro, è una blogger fenomenale. Il suo talento è uno dei motivi, se non Il Motivo, per cui Parzival si innamora di lei.
Art3mis, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta.
2. Aech, nel libro, è un genio. Conosce a memoria ogni film/romanzo/serie tv/prodotto degli anni Ottanta e le scene in cui passa il tempo con Parzival nella Cantina, facendo a gara a chi la sa più lunga, sono la vera anima di Ready Player One.
Aech, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta.
3. Daito e Shoto, nel libro, traboccano di quel tipo di onore che possiamo imparare solo dall’oriente.
Daito e Shoto, nel film, sono stereotipi tagliati con l’accetta.
4. James Halliday, nel libro, è un uomo comune eletto a divinità. Ha creato un luogo in cui, dopo il disastro che ha sconfitto il Pianeta, i ragazzi possano studiare ugualmente, crescere ugualmente. Per poter continuare a difendere questo diritto non ha ceduto alle offerte delle multinazionali. Oasis non è un gioco: è un’alternativa al dramma, è una speranza.
James Halliday, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta e Oasis non è altro che un videogioco, nemmeno troppo articolato.
5. Nel libro, tutti non possono fare tutto. Il sistema economico impedisce ad alcuni abitanti di uscire dal pianeta Ludus e non è un caso che Halliday abbia nascosto la prima chiave nell’unico luogo accessibile a chiunque. Ricco o povero, avrebbe solo dovuto capire. Sarebbe stata l’intelligenza, non la ricchezza, a vincere.
Quella prima chiave, poi, è dannatamente difficile da trovare. Art3mis ne scopre la posizione, ma non riesce a prenderla, perché anche conquistarla è dannatamente difficile e no, non basta essere bravi a Mario Kart.
Per poter raccontare tutto quello che va raccontato, Spielmeckis fa proprio questo: lo racconta. Contravvenendo alla prima e imprescindibile regola di qualsiasi bravo narratore: mostra, non spiegare.
Questo sarebbe sufficiente a liquidare il film come una schifezza.
Il problema è che, stavolta, Spielmeckis non si è limitato a fare un brutto film, pieno di retorica e siparietti che anche negli anni Novanta sarebbero sembrati superati. Stavolta Steve ha rovinato un libro che, nelle mani giuste, sarebbe diventato un film leggendario. Perché in Ready Player One c’è tutto: la critica sociale, l’amore, una delle più belle amicizie mai raccontate, scene che sarebbe bastato copiare-incollare e tanti di quei riferimenti pop da arrivare a qualsiasi pubblico, di qualsiasi età o estrazione sociale. Non bisognava fare altro che capirlo.
Spielmeckis non l’ha capito. Non ho altra spiegazione, perché alla base di tutto c’è un principio molto semplice: si gioca da soli. È una questione di onore. È solo alla fine, davanti all’ultima porta, con le tre chiavi, che questo principio viene stravolto.
Ready Player One, se ci fosse bisogno di dirlo, ha il finale perfetto. Nell’ultimo capitolo Parzival incontra Art3mis. Solo allora, dopo la Battaglia. Non si sono mai visti prima, lei non ha voluto: c’era qualcosa da combattere, qualcosa di più grande del loro desiderio di conoscersi. Quello che provano l’uno per l’altra ha a che fare con l’ammirazione, con l’estrema fiducia di chi parla la stessa lingua e, alla fine, di parole non ha più bisogno. Non è la tempesta ormonale di due adolescenti logorroici. E nel momento del loro incontro, per la prima volta, Parzival non sente la necessità di tornare immediatamente su Oasis. Ci tornerà, ma non ha fretta. È il finale perfetto e, come tale, l’unico finale possibile. O così credevamo, perché nel film, per concludere il disastro con un altro disastro, Parzival decide di “chiudere” Oasis due giorni a settimana. Come la macelleria sotto casa.
Potrei continuare, analizzando ogni fotogramma e le mancate spiegazioni (perché i Sixers si chiamano così? perché nessuno protesta per l’esplosione di un intero quartiere? perché la vicina sopravvive alla distruzione della sua casa? che fine fa lo squadrone di Art3mis? come fa a uscire senza essere vista dall’ufficio di Sorrento? perché nel momento in cui Parzival fa credere a Sorrento di essere nella realtà, ma si trova all’interno di Oasis, vediamo il vero Sorrento e non il suo avatar?), ma mi limiterò a due semplici considerazioni.
1. Scoprire che l’autore del libro, Ernest Cline, ha partecipato alla sceneggiatura del film è stata una di quelle delusioni che somigliano piuttosto a microscopici tradimenti da cui sai che difficilmente riuscirai a riprenderti.
2. Provate a pensare che cosa sarebbe potuto essere, che film avreste potuto vedere, riguardare, imparare a memoria e citare per anni e anni, in qualsiasi contesto.
Il film che sarebbe potuto essere, sarebbe stato probabilmente il mio film preferito.
E, forse, anche il vostro.
Nella mia personalissima visione delle cose, però, anche Player One ha un lato positivo e, se avete letto con attenzione, avete già capito quale:
in Player One non c’è Tom Hanks.